martedì 19 luglio 2011

Sei come il vento



Non ho paura di quale sarà il percorso,
bisognerebbe conoscerlo,
non ci resta che assaporarlo
fino in fondo ai reni
e tutto andrà bene. 
Il vento ci porterà.

Il tuo messaggio per l'Orsa Maggiore
la sua traiettoria,
un'istantanea di velluto,
anche se non serve a niente
il vento lo porterà.

Tutto svanirà ma 
il vento ci porterà.

La carezza e la mitraglia
e questa ferita che ci strappa,
il palazzo di altri giorni,
di ieri e domani,
il vento li porterà.

Genetica a tracolla,
cromosomi nell'atmosfera,
tassì per le galassie,
e il mio tappeto volante, lui, 
il vento lo porterà.

Tutto svanirà ma
il vento ci porterà.

Questo profumo dei nostri anni morti,
chiunque possa venire a bussare alla tua porta,
un'infinità di destini 
ma ce ne spetta solo uno, cos'è che ricorderemo?
Il vento li porterà.

Mentre sale la marea
e che ciascuno rifà i suoi conti,
io porto con me la mia ombra
e un po' polvere di te:
il vento la porterà.

Tutto svanirà ma
il vento ci porterà. 


venerdì 15 luglio 2011

Ricordi

E' senza dubbio uno dei libri più belli che ho letto. Non tanto per la storia o per l'autore ( tra l'altro controversissimo ), ma per il momento in cui l'ho letto e per i brividi che mi ha saputo dare. 
La storia è affascinante, non saprei come altrimenti definirla. Ma non è questo, ripeto. Quello che affascina più di tutto sono le immagini che suscita questa storia, l'atmosfera che pervade il racconto. 
Il mare. 
Ci sono dei passaggi che ti fanno accapponare la pelle, se capisci cosa vogliono dire: la loro forza sta nel descrivere esattamente quello che senti, nel leggere quelle parole messe in fila e pensare "è così, è proprio così".
"Oceanomare" è una risorsa. Non basta una volta sola per leggerlo, secondo me, è piacevole farlo più volte, magari a distanza di tempo, per vedere l'effetto che fa. Consiglio non solo di leggerlo, ma anche di leggerlo al mare, se il mare vi piace. Se così è, allora il libro non vi lascerà indifferenti.
C'è, però, una controindicazione: lascia una gran malinconia.


"Posta sull'ultima cornice del mondo, a un passo dalla fine del mare, la locanda Almayer lasciava che il buio, anche quella sera, ammutolisse a poco a poco i colori dei suoi muri: e della terra tutta e dell'oceano intero. Pareva - lì,così solitaria - come dimenticata. Quasi che una processione di locande, di ogni genere e età, fosse passata un giorno da lì, costeggiando il mare e, tra tutte se ne fosse staccata, una, per stanchezza, e lasciatasi sfilare accanto le compagne di viaggio avesse deciso di fermarsi su quell'accenno di collina, arrendendosi alla propria debolezza, chinando il capo e aspettando la fine. Così era la locanda Almayer. Aveva quella bellezza di cui solo i vinti sono capaci. E la limpidezza delle cose deboli. E la solitudine, perfetta, di ciò che si è perduto."

giovedì 7 luglio 2011

Sotto esame

Sessione estiva ti odio.


Avete presente Sartori? Ho preparato un esame di "Comunicazione Politica" con uno dei professori più tremendi (e validi) che si possa immaginare, un tale Marco Tarchi (noto,notissimo per chi ne sa qualcosa di politica). 
Due sono i testi su cui verte l'esame, un manuale e "Homo Videns", appunto di Sartori. 
Qui di seguito un "riassuntino" per chi fosse incuriosito o interessato.







SARTORI
 HOMO VIDENS

In principio era il Verbo.
La parola, prima parlata, poi scritta.
La parola è ciò che distingue l’uomo dall’animale. Gli animali non parlano: emettono suoni e, a loro modo,comunicano; ma non parlano.
L’uomo è un animale simbolico: riesce ad elaborare idee, a legarle in concetti e ad esprimerli con il linguaggio.
Quando l’uomo primitivo è riuscito a dare un senso ai suoni che emetteva con la bocca, quando ha capito che se emetteva un determinato suono comunicava anche un determinato concetto, allora è nato il linguaggio.
Da allora il linguaggio ha fatto molta strada: si è trasformato in lettera, poi in lingua ed è stato diffuso prima con la stampa e poi con la radio.
Poi è arrivata la televisione e alla parola è stata affiancata l’immagine.
Una rivoluzione epocale.
Ma, si sa, nessun cambiamento viene indifferente.
Ci sono cambiamenti che sono caldeggiati, ce ne sono altri che intimoriscono e ci sono quelli che vengono bene accolti: la televisione fu uno di questi.
Fino a quel momento il “vedere” umano s’era potenziato in due direzioni: si poteva ingrandire il piccolissimo e rimpicciolire il grandissimo; ma con la televisione si poteva vedere il mai visto.
Quando arrivò il computer si potè, infine, vedere l’irreale.

E’ cambiato parecchio.

La parola è un simbolo. Se non è associata ad un significato condiviso è lettera muta;
non è immediata, lo è soltanto se si conosce il linguaggio di cui fa parte.
Ascoltare e leggere richiedono concentrazione, un minimo di raccoglimento, attenzione, capacità di collegamento, logica, immaginazione.





Vedere richiede gli occhi.
In linea di massima non c’è bisogno di altro perché  l’immagine è universale, è quella e basta, non c’è niente da capire.
La televisione non è un’aggiunta: è una sostituzione che ribalta il rapporto tra capire e vedere.
Capire vedendo è diverso da capire leggendo. Capire vedendo vuol dire perdersi qualcosa, usare meno attenzione o non usarne,addirittura,affatto.
Pertanto il caso della televisione non può essere trattato analogamente a quello della stampa o della radio perché ha il surplus dell’immagine, perchè si risolve nell’immagine.
La televisione, però, come lo sono stati i libri e, in misura minore, la radio, è paideia: crea un nuovo anthropos. Mentre,però,i libri hanno creato un anthrops che ha sviluppato ulteriormente la sua capacità d’astrazione, la televisione ha creato un video-bambino.
L’homo-videns educato dalla televisione è abituato all’immagine: ha tutto davanti agli occhi e ha perso la sua capacità d’astrazione, è stato privato del ragionare per concetti, dell’abilità di interpretare, di capire.
Il video-bambino cresce davanti alla tv e diventa un adulto-bambino, impoverito, uomo ludens che prende tutto come un gioco, couch potato rimbambito dal video e dai videogames.
La cultura perde la sua dimensione intellettuale e mantiene solo quella sociologica: la cultura come sapere rimane dei pochi, i più fanno parte della cultura dell’incultura,sociologicamente e intellettualmente.
La televisione non rappresenta un’ evoluzione culturale: è un’involuzione, un declassamento in una sottocultura, un enorme passo indietro. Non è progressiva perché non migliora uno stato di cose preesistente e rappresenta solo un miglioramento in senso quantitativo,estensivo di uno stato delle cose precedente,ma non qualitativo.

Tutto il sapere dell’uomo sapiens si sviluppa in una dimensione intellegibile, per concetti, per idee astratte, separate da una sfera sensibile che pur è importante ma che ne rappresenta solo l’oggettivazione:






come nella distinzione platonica tra iperuranio e mondo sensibile, tra mondo delle idee e mondo materiale, tra l’essenza delle cose e la loro parvenza.
La televisione da spazio alla parvenza: il concetto non trova spazio in televisione e per colpa di quest’ultima non trova più spazio nemmeno nella mente dell’homo-videns che non è più in grado di rifarsi alle pure idee, ai concetti.
La capacità logica è potenzialmente usufruibile da ogni homo sapiens. Il procedimento logico procede per gradi, secondo una linearità che pone le cose in successione causale, una dopo l’altra, in un ordine preciso.
Si vorrebbe insegnare ai bambini, nelle scuole, con l’esperienza dell’ipertesto, di un testo che non è solo scrittura ma anche immagine,suono,navigazione,esplorazione, a creare, a divertirsi imparando perché liberi di non seguire la logica canonica.
Ma così non si fa altro che amplificare l’illogico, non si fa altro che istigarlo anche nelle scuole promuovendo una non-logica.  E’ un incoraggiamento alla schizofrenia, alla centrifuga del pensiero, a vivere la realtà come un sogno.

Il progresso tecnologico è inevitabile: si, ma non per questo bisogna permetterne il degenero in negativo.
Non c’è contrasto tra parola e immagine: c’è eccome, la parola è un concetto, l’immagine diviene tale solo con la parola e se quest’unione viene fatta nel modo sbagliato ( ad esempio descrivendo un immagine per quello che non è ) allora si creano dei non-concetti, si creano vuoti di senso, menzogne concettuali.
Il vedere impoverisce il capire ma il capire non è per tutti, il vedere si e, quindi, è democratico: facile appellarsi ad una democrazia dell’ignoranza.
Le critiche mosse sono vere per la televisione, ma con le nuove tecnologie cadono: no,sono esattamente le stesse.

Internet è per tutti ma non è per tutti.
E’ un oceano informativo nel quale si può affogare se non si sa nuotare: saper nuotare vuol dire saper scegliere ed è difficile saper scegliere quando la scelta è troppa. Sono pochi quelli che sanno scegliere bene.
Internet è, per i più, uno svago; uno strumento informativo valido per pochi.
Internet è una realtà virtuale: i cibernauti comuni rischiano di perdere il senso del reale, rischiano di non saper più distinguere tra esistente e immaginario.






Internet come passatempo è facile da usare, non richiede competenza, non richiede energia e non richiede alcun tipo di sforzo intellettivo, basta digitare.
Ma la tv richiede ancora meno sforzo: chiede semplicemente di  guardare.

La tv cresce video-bambini che,prima o poi,diventano adulti che dovranno per forza effettuare scelte politiche. Ed ecco che la tv li informa (oltre a continuare a divertirli).
La video-politica è la politica per immagini: le parole restano il brusio di sottofondo.
I video-bambini trovano nella tv la loro paideia perché le altre forme di paideia vengono meno: la famiglia non riesce più ad avere un ruolo di autorità, la scuola è sempre più scadente, il gruppo dei pari è formato da altri video bambini; la televisione si ritrova ad insegnare, ruolo che non le apparterrebbe.
E il concetto fondamentale sta tutto qui: il video-bambino diventa video-adulto; il video-adulto è chiamato ai suoi doveri di cittadino; il video-adulto non ha capacità di astrazione, di critica, di pensiero autonomo; il video-adulto diventa un pessimo cittadino; la democrazia si trasforma in una dittatura dell’opinione.

Cosa vuol dire opinione pubblica? Opinare non è sinonimo di sapere,bensì di interpretare. L’opinione pubblica non è il sapere dei più, è il parere dei più.
Bisogna distinguere tra opinione pubblica, opinione popolare e opinione di massa.
La prima è un’opinione dei pubblici su poche cose pubbliche; la seconda è un’opinione diffusa su molte cose, è quantitativa; la terza si alimenta della suggestione, del sentito dire, dell’irrazionalità, della demagogia.
La democrazia è il governo del popolo e il popolo deve poter esprimersi su ogni cosa: esprimersi, opinare, non sapere. La democrazia è il governo dell’opinione.
E allora come si fa a costruire un’opinione pubblica che sia VERAMENTE del pubblico, che non sia indotta da qualcun altro?
In un contesto del genere appare chiaro come il concetto stesso d’opinione e l’opinione di massa si vadano a fondere in un tipo d’opinione svuotata perché diretta dall’esterno.
La televisione fornisce opinioni che sono rafforzate dall’autorità dell’immagine: tale opinioni vincono perché l’occhio crede in quel che vede.
Ergo, se la democrazia è il governo d’opinione, la democrazia è il governo di un’opinione etero diretta.




Il cittadino diventa un sub-cittadino.

L’uomo è un essere razionale: possiede la ragione di serie e, quindi, può potenzialmente usufruirne.
Com’è definibile la razionalità? Nel contesto finora analizzato, venendo meno la capacità di astrarre e di formulare concetti e di dispiegare le effettive capacità della ragione, essa va a coincidere con l’utilità. Una razionalità stupida e poco lungimirante.

Per i profeti del post pensiero e del cibermondo, per i seguaci del Negropontismo non ci sarà nemmeno più bisogno della razionalità perché essa verrà soppiantata dalla libertà.
La democrazia fa della “libertà da” e della “libertà di” una delle sue bandiere. Ma la libertà non è anarchia, né del pensiero, né della logica.
Eppure i digerati si sentono liberi: sì, liberi di avere quanti bit vogliono a sempre più velocità; l’informazione è il bit.

Gli uomini multimediali a forza d’essere liberi non fanno più niente: non apprende le cose perché le ha fatte, ne ha familiarità apparente solo perché le vede.
Siamo ritornati all’era degli uomini bestioni descritta da Giambattista Vico: uomini incapaci di pensare,creduloni,sognanti,imbambolati di fronte alle cose da vedere a cui non sanno dare una spiegazione ma che,certo,li suggestionano.

Un mondo di uomini bestioni,quindi: un mondo di poveri di mente.
Questi esseri insipienti ci sono sempre stati, sono sempre esistiti: solo che prima c’erano pochissime possibilità che potessero mettersi in contatto tra di loro, mentre adesso possono cercarsi, trovarsi, unirsi grazie soprattutto ad internet.
Ed è così che l’uomo è ridotto a relazione, ad uomo comunicante.

La comunicazione. I paladini della comunicazione si riempiono la bocca con una parola che non sanno nemmeno cosa voglia dire: dobbiamo comunicare, ossessivamente comunicare, comunicare ogni cosa, comunicare. Ma se non abbiamo la minima concezione delle cose, cosa comunichiamo? Il nulla.




Una sensibilità superiore che si richiama all’apertura, alla comunicazione, al mettere in comune, nel quadro descritto non è niente.

Il post-pensiero è il ritorno all’incapacità di pensare.

L’analogia tra concorrenza di mercato e concorrenza televisiva è fuorviante: la concorrenza di mercato va a beneficio del mercato e del consumatore, poiché entrambi ne traggono profitto; la concorrenza televisiva va a beneficio solo dell’industria televisiva ma non del pubblico.
La concorrenza non avviene in base alla qualità e al prezzo dei programmi, infatti. Essa è da riferirsi alle pubblicità inserite nei vari programmi.
Le pubblicità vengono inserite in maggior numero e con maggior frequenza sulle reti commerciali e in maniera minore su quelle pubbliche. Ovviamente saranno piazzate nei momenti in cui hanno più chances d’essere viste, di fare colpo.
Le misure quotidiane d’ascolto servono per la pubblicità, per inserirla nei momenti in cui c’è più ascolto.
Il consumatore televisivo non trae alcun vantaggio da una tv che si fa concorrenza a colpi di contenuti scadenti.
Gli ascolti televisivi vengono misurati con l’Auditel: le tecniche di misurazione però non sono mirate, non vanno per target, bensì considerano tutti gli ascolti indifferentemente da quelle che potrebbero essere le diverse tipologie sociali che in quel momento si stanno sintonizzando sull’uno o sull’altro programma.
Questo avviene per tutti i programmi, anche per i telegiornali. Un servizio pubblico deve avere un telegiornale, quello privato, invece, non ne è obbligato.
Gli stessi telegiornali si sfidano a colpi di Auditel adattandosi ai dati che quest’ultimo fornisce: se ci sono più ascolti sul servizio privato, quello pubblico cercherà di assomigliargli e quindi di svalutarsi progressivamente.
Nei tg del servizio pubblico, però, non sono consentite pause pubblicitarie, previste invece per quelli delle reti private. E allora, perché applicare l’Auditel anche al tg della rete pubblica se non vi sono interruzioni pubblicitarie? Perché comunque la rete pubblica, anche in questo campo, deve dimostrare d’esser meglio di quella privata. E allora tagliamo la testa al toro: togliamo i tg delle reti private e ritorniamo a fare dei tg decenti sulle reti pubbliche, tg che non debbano tener conto di quanto share fanno ma di come informano. 

venerdì 24 giugno 2011

Permesso?




Ebbene, ci ho voluto provare anch'io ad aprire "il blog". 
Non so quanto (e se) durerà, conoscendomi, ma - vuoi per l'assoluta riluttanza allo studio che mi prende d'estate e che mi porta a fare tutto tranne studiare, vuoi per l'apatia, il caldo, la noia,l'alzarsi ogni mattina con il piede sbagliato, il voler costantemente essere in ben altri luoghi e per mille altri motivi più o meno sinonimi - era qualche giorno che ci pensavo, che mi attirava l'idea e, alla fine, l'ho fatto. 
Non lo userò come diario per le cronache dei miei fatti personali, non sono proprio il tipo. 
In realtà non so bene ancora per cosa lo userò o quello che ci scriverò. 

Probabilmente per poche pretese e molte divagazioni. 


Lo sapevi che...?

Ore 13.40. 
E' l'ora della soap opera. 
Mia nonna guarda "Beautiful" praticamente da quando ho memoria. 
Da 23 anni a questa parte - facciamo 20: non ho ricordi fino ai 3 anni d'età,credo - ogni giorno, alla stessa ora, un'unica certezza: Beautiful. 

I capisaldi della vita!

Un prodotto televisivo vuoto, privo di contenuti stimolanti, con la stessa storyline da anni; la sagra dell'ovvio e del patinato. Stessi personaggi principali che stanno ben attenti a non mutare fisicamente nel tempo, a costo di sembrare impagliati ( Ridge è l'uomo più imbalsamato del mondo ), stesse vicende amorose ( protagonista assoluta Brooke che, gira e rigira, lo prende un po' da tutti e un po' da nessuno, visto che lo prende sempre dagli stessi tre o quattro bischeri, salvo aver fatto una selezione negli ultimi anni che esclude i vecchi di casa Forrester o Marone: si vede che è diventata un pochino più schizzinosa negli anni della maturità ), stessa sigla, stessa logica americanista che propone persone "non-persone", vite "non-vite", idealtipi distorti dalla concezione etnocentrica e universalizzante del criterio di perfezione. 
A parte questo, stupirà sapere che "Beautiful" e le soap opera in generale, hanno un loro perchè. Anzi, due. 
Il primo, quello materiale, è intuibile: la "soap" opera nasce per essere somministrata alle casalinghe disperate nelle loro ore di punta, cioè quando sono tutte indaffarate a sparecchiare la tavola, lavare pile di piatti, stirare colonne di camicie, maglie, magliette, pantaloni, passare l'aspirapolvere, per inserirci qualche bella pubblicità del sapone che sgrassa meglio così poi il piatto fa "swish", dell'ammorbidente che ammorbidisce anche le mummie, dell'aspirapolvere talmente potente che crea buchi neri interspaziali. Così le casalinghe, in trepidante attesa della loro soap opera preferita, si sorbiscono anche tutte questi bei consigli per gli acquisti imbambolanti e, magari, la mattina dopo, vanno dritte al supermercato a comprare il magico prodotto sponsorizzato.
Il secondo, quello immateriale, non è intuibile per niente ( o almeno, io tutto avrei pensato tranne questo ) : le soap opera servono ad allontanare la paura della morte. 
Assurdo? No, per niente. Basta rifletterci un attimo e sarà palese. 
Nella soap opera il tempo non c'è.
Lo spazio è definibile per sommi capi e non conta niente, fa da sfondo, da mera scenografia. 
Le vicende sono sospese in un tempo e in uno spazio che non hanno coordinate. 
Ogni puntata è conchiusa in sé stessa: che si guardi una puntata di Beautiful del 1990 per poi saltare ad una del 2011 non c'è niente di nuovo, il nuovo è accessorio, fa da contorno, la storyline principale è immutata e, dunque, sempre potenzialmente accessibile.
Non c'è mai una fine e non si ricorda l'inizio. 
Si sa che prima o poi una fine ci dovrà pur essere. Ma intanto non c'è. 
Il solo fatto di sapere che alle 13.40 su quel canale, cascasse il mondo, Beautiful ci sarà, da sicurezza, fornisce un'abitudine, una consuetudine, una piccola tradizione. 
Il pubblico più affezionato è quello delle nonne, delle vecchiettine che nonostante affermino pedissequamente che " Ah, a Beautifù ormai fanno schifo, sempre le solite cose, son tutti de' grulli" , ogni giorno si sintonizzano come antenne, da anni.  
E' una distrazione fissa. In quel quarto d'ora non c'è tempo per pensare agli acciacchi, ai figli, ai nipoti, alla vita. In quel quarto d'ora non c'è niente,è tutto perenne,è tutto immobile,è tutto congelato. 

Basta fare due più due. Banale, no?